O Thiasos Teatro Natura

  • In Animal Performance Studies | collana Mimesis Journal Books
  • dicembre 2022
  • di Sista Bramini

    in ANIMAL PERFORMANCE STUDIES, a cura di Laura Budriesi
    Raccolta di saggi | Mimesis Journal Books | dicembre 2022

    “(...) L’ottica sperimentale e multidisciplinare dei Critical Animal Studies risulta il terreno comune attraverso cui sono organizzati i contributi che compongono il volume e che spaziano dalla teoria della performance, all’etnoscenologia, dalla zooantropologia alla zoosemiotica, dalla filosofia all’etologia, senza tralasciare il punto di vista degli artisti della scena contemporanea.”

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L’animale scenico e lo spazio naturale. Appunti e riflessioni dal TeatroNatura
di Sista Bramini | In Animal Performance Studies | a cura di Laura Budriesi

«Diversamente dal teatro al chiuso in cui tutto – luci, acustica, amplificazioni, posizione del pubblico e dispositivi tecnologici – è costruito secondo una visione antropocentrica, per un attore cioè che idealmente e concretamente sia sempre al centro della scena, fare teatro nella natura comporta una formazione teatrale particolare. È necessario integrarsi nell’ambiente vivo circostante istaurando relazioni organiche, spaziali, sonore e tematiche con il trascolorare della luce, le acustiche naturali, gli alberi, i suoni di animali piccoli e grandi, canti e voli di uccelli, il frusciare del vento tra le fronde, la presenza degli spettatori, tutti elementi in continua mutazione. D’altronde è parte della più profonda vocazione dell’attrice e dell’attore offrirsi nel rischio dell’incontro in presenza come esperimento vivo di relazioni percettive, affettive e intellettuali.
In questo senso, come cercherò di argomentare, il tema dell’animale in teatro riesce ad intrecciare vari aspetti – tutti decisivi – per il TeatroNatura, il progetto teatrale a cui mi dedico ormai da 30 anni (principalmente in parchi naturali e siti archeologici fuori delle città) e che, col trasformarsi del contesto storico sociale, della mia vita e quella della nostra compagnia O Thiasos TeatroNatura, continua a entrare in crisi, rinnovarsi, e approfondirsi. Questi aspetti sono:

1) Un allenamento e una pratica volta a facilitare nell’attrice il risveglio della sua animalità: la disponibilità cioè di un corpo vivo e all’erta, presente ed essenziale, in contatto con le emozioni primarie e la sua libertà di sognare.
2) La creazione di spettacoli e di laboratori formativi nella Natura concepiti anche come strumenti, dispositivi organici di incontro con il luogo in grado di ampliare e favorire la continuità dell’attenzione al mondo vivente circostante. Gli animali e gli alberi non sono considerati “a disposizione della nostra arte” né utilizzati a questo fine ma, in quanto presenze del luogo risultano co-creatori spontanei, consapevoli o meno, della nostra azione di relazione.
3) Il lavoro di rielaborazione e narrazione orale del mito classico nei cui testi gli alberi, gli animali e gli elementi naturali sono spesso protagonisti, integrati alle divinità, ai personaggi e alle situazioni narrate. L’atto del raccontare risveglia queste figurazioni mitiche grazie alla danza metamorfica del corpo narrante che le incarna e ne è continuamente attraversato.
4) La musica, e in particolare il canto polifonico tradizionale a cappella, che concorre allo sviluppo dell’ascolto e di una “sensibilità mistica” e che, veicolando ciò che non si può dire con le parole, immerge le frequenze vocali umane, e a volte strumentali, nello spazio vivo attraversato dai suoni degli altri esseri presenti, canti di uccelli, respiri del vento tra le fronde, sonorità acquatiche di ruscelli, fruscii di piccoli animali, versi di animali più grandi risonanti nel paesaggio: nitriti, ragli, muggiti, bramiti. In questo processo immersivo, decisive sono anche le sospensioni del canto, le pause nel recitato, lo svanire del frusciare del vento tra le fronde che aprono al vuoto e al silenzio interiore.
5) Infine la coscienza che il nostro contesto storico culturale, accanto alla cultura tecnologica e digitale, ha un estremo bisogno di sviluppare un umano presente ed empatico sensorialmente, affettivamente e intellettualmente in contatto e in relazione con la Natura e i viventi (compresi gli umani) che la abitano. Il sapere del corpo teatrale può essere in parte recuperato per contattare non solo la solitudine umana imprigionata nelle città, ma anche una cittadinanza che si cerca nell’appartenenza al vasto mondo dei viventi.

Comincio le mie riflessioni proprio da quest’ultimo aspetto giacché non posso che partire da me, oggi, e inevitabilmente nella risonanza della pandemia appena vissuta che, strettamente collegata alla grave malattia culturale che attraversa la nostra civiltà, probabilmente ci accompagnerà in forme differenti per diverso tempo. Nella mia vita, come credo sia accaduto a molte e molti di noi, non avevo ancora sperimentato una crisi personale che risuonasse altrettanto profondamente nella nostra società. Questa incredibile esperienza ha inciso maggiormente in me la coscienza dello spirito del mio tempo, la consapevolezza di essere immersa in un mondo in cui la tecnologia è in un continuo irreversibile sviluppo e per la prima volta ne ho avvertito davvero, personalmente, la portata. Mi riferisco in particolare alle piattaforme Zoom, Skype ecc. che in una vita fatta soprattutto di incontri in presenza avevo sempre usato poco e perciò sottovalutato. Invece nei mesi di isolamento questi dispositivi sono diventati, per me che in questo periodo abito sola, l’unica possibilità di relazione visiva con i miei affetti tra i quali a pieno titolo ci sono le persone della mia compagnia teatrale che, grazie proprio a Skype, ho potuto incontrare regolarmente anche riuscendo a condividere una specifica pratica sui diversi ritmi nella danza. In quegli stessi mesi però si è ancor più radicalizzata in me la coscienza quasi bruciante dell’importanza decisiva del corpo e delle relazioni in presenza. Durante la prima clausura, grazie anche a un silenzio prima inimmaginabile nel mio quartiere romano, accanto ad un’insolita sensazione di mia fragilità riscoprivo il mio terrazzino con le sue piante e gli uccelli che ora cantavano più vicini, i gechi che sgaiattolavano sul muro dopo il tramonto e le formiche che percorrevano il tronco del limoncino, fenomeni ordinari ai quali non avevo mai dato così tanta importanza. Un giorno una grossa cornacchia si è posata su un vaso proprio accanto a me che seduta stavo leggendo. Restava lì, vicinissima e tranquilla, non mi era mai successo. Stupita ed emozionata, per riflesso condizionato o per imbarazzo, ho sollevato il cellulare per fotografarla e lei naturalmente è subito volata via, lasciandomi nell’improvvisa e spietata coscienza della mia incapacità di fare come lei, starle accanto e basta e, per un attimo, ho percepito chiaramente la mia solitudine di umana, i due muri, di cui parlava Grotowski ai tempi del Teatro delle Sorgenti che ci separano dalle forze viventi intorno a noi e dentro di noi, e come quei muri siano in realtà uno solo: se cade uno, cade anche l’altro. Quella barriera, che provo ad assottigliare e ad abbattere con il TeatroNatura, si riforma comunque ogni volta, soprattutto nella vita ordinaria perché questa condizione alienata, oltre che penosamente personale, è antropologicamente e culturalmente radicata.
In quel mio vergognarmi davanti a quella cornacchia, ho compreso di colpo più profondamente come sia necessario integrare una tecnologia inarrestabile e sempre più sofisticata con un corpo empatico e presente – aperto alle relazioni, doni spesso imprevisti – con gli altri viventi.
Con il termine integrare non intendo giustapporre in una casuale mescolanza le due forme di conoscenza e di comunicazione ma, forse, che andrebbero coltivate accanto, sempre consapevoli l’una della necessità dell’altra, ma separate. Questo almeno fino a quando il corpo della presenza, oggi così negletto, non si sia liberato e sviluppato abbastanza da incidere su una trasformazione del pensiero e della sensibilità tecnologica e digitale. Se ciò suona utopistico, non vedo altre direzioni per la nostra specie, perciò mi trovo a pensare con Eraclito: «Se uno non spera l’insperabile non lo troverà, perché è impensabile, inaccessibile».

1. Appunti sulla relazione tra tecnologia e omeostasi ambientale
Intanto, però, scopro da alcune letture (Conte 2021) che in studi scientifici recenti, nel considerare l’equilibrio dinamico-omeostatico-interno in cui ogni vivente si collega col suo ambiente, si fa strada un approccio al digitale che parte da un’inusuale prospettiva biologica. Nell’essere umano la qualità del suo rapporto con l’ambiente (regolato un tempo prevalentemente dal cervello rettiliano oggi quasi atrofizzato), continua a rivelarsi attraverso i nostri sentimenti che sono indiretti ma potenti indicatori dello stato di salute della relazione tra il nostro organismo e l’ambiente, una relazione fatta per essere sincronizzata in un unico sistema integrato. In questi delicati equilibri dinamici, la tecnologia si inserisce in modo dirompente imponendo sempre più il suo meccanico dogma: non avrai altra relazione al di fuori di me. La libertà promessa e mantenuta dal dispositivo tecnologico permette regolarità e certezza di relazione con un dato fenomeno proprio grazie alla sua meccanicità esplicitamente progettata. La parte razionale del nostro cervello, tutta volta all’anticipazione degli eventi futuri resa agevole proprio dalla semplificazione di quella relazione, ne è esaltata. Il potere sempre maggiore offerto dalla tecnologia di compiere qualcosa senza incontrare ostacoli rende la nostra coscienza intenzionale rivolta ad un fine un atto sempre più incontrastato. In termini cibernetici, un ente agisce su un altro ente senza subirne l’eventuale retroazione negativa. «Asservire un sistema significa comandarlo senza subirne la reazione» (Ducroq, in Morin 2001, 275). È così che “potere” diviene sinonimo di asservimento, possibilità di plasmare l’altro alla forma dei propri desideri e la tecnologia si fa strumento di potere sull’altro e di libertà dall’altro.
Leggo poi che il dispositivo tecnologico è sempre ideato, progettato e realizzato secondo alcuni criteri imprescindibili caratteristici di un sistema non complesso:
1. Prevedibilità: a un input deve corrispondere un solo output
2. Riducibilità: un tutto composto di parti assemblate in vista di uno scopo
3. Ripetibilità: il funzionamento deve essere costante nel tempo
4. Reversibilità: il processo di assemblaggio può essere scomposto
5. Indipendenza dallo spazio e dal tempo: il dispositivo deve funzionare il più possibile a prescindere dalle condizioni del contesto e del momento specifico.
Se la tecnologia fosse complessa, con caratteristiche diverse da quelle esposte sarebbe inefficiente, inutile, indesiderabile. Le innovazioni tecnologiche in ogni campo possono essere complicate al punto da inibire la conoscenza completa del loro funzionamento, ma ciò non deve offuscare il fatto che non vi è in loro alcuna traccia di complessità. E l’avversione che possono suscitare queste affermazioni è legata alla facile armonia che si sviluppa tra soggetto e il dispositivo tecnologico che siamo indotti ad amare perché rende il mondo più adatto a noi affrancandoci dalla rischiosa, a volte dolorosa ma vitale relazione con la sua complessità. Ma anche se l’affermazione relativa alla diffusione dei dispositivi social «Una disperazione felice attanaglia il corpo sociale e sembra in grado di anestetizzare gli stessi individui» (Bellucci 2021: 75) ci inquieta, l’impulso alla semplificazione e all’efficienza tecnologica è parte integrante della natura dell’animale umano che però, in quanto vivo e unico, è anche frutto di relazioni particolari e di una storia personale irriducibile, prova soddisfazione a sviluppare le sue proprie potenzialità, gode e soffre dell’occasione irripetibile del momento e della particolarità delle relazioni che intesse, impara ad adattarsi all’imprevedibilità attraverso l’esperienza personale e l’intuito che lo trasformano e lo fanno evolvere e, biologicamente consapevole del rischio insito in ogni vivente, è un organismo in grado di auto secernere sostanze per lenire il dolore, farsi coraggio ecc. Tutto ciò lo rende un essere ambiguo, sensibile, complesso, creativo e più o meno imprevedibile.
Mi sembra sia sempre più importante sviluppare, grazie anche agli strumenti del pensiero sistemico, di analisi e sintesi filosofica, una lucidità che confronti le diverse narrazioni, comprese quelle critiche, del “progresso” del nostro mondo. È sul solco di questa ricerca di libertà da un pensiero e una percezione della realtà omologati che può muoversi l’arte, in questo caso quella detta “dal vivo”, non certo proponendosi come alternativa alla conoscenza scientifica e tecnologica ma neppure per cedere alla tentazione di rinunciare alle proprie specifiche potenzialità conoscitive e comunicative. Il teatro resta infatti un dispositivo tecnologico ma, in quanto organico, vivo e coraggiosamente aperto al rischio dell’incontro, può essere particolarmente utile all’evoluzione della persona, della natura umana e della civiltà. A questo proposito si potrebbe vedere il TeatroNatura, come un laboratorio a cielo aperto sulle possibilità di ricucire un equilibrio omeostatico tra le persone e l’ambiente naturale.

2. Appunti sul sapere orale veicolato dal teatro
Probabilmente proprio il teatro, con la parola come prima maschera, come ci ricorda il filosofo Carlo Sini (Sini, Attisani 2021), è stata la prima forma di conoscenza di sé stessi e del mondo, il raddoppiamento necessario per poter osservare dal vivo e indagare la fenomenologia umana, trasmetterne i provvisori risultati e nello stesso tempo affinare quella capacità d’intesa in cui si rinnova ogni comunità conoscente.
La cultura orale che, attraverso l’evoluzione del linguaggio e delle sue specifiche tecniche, ha caratterizzato l’animale umano per millenni è anch’essa sempre traduzione dell’esperienza diretta ma nel suo essere viva, presente, radicata nel corpo in azione e soprattutto nello scambio con l’occasione particolare in cui agisce e di cui si nutre, mantiene aperta una decisiva componente esperienziale.
Evidentemente con “cultura orale” non mi riferisco unicamente al “parlato” -che è inteso così solo da quando lo si è contrapposto allo scritto- ma a tutto quello che ci va insieme: gesti, voce, respiri, silenzi, ritmo, espressioni (canto, danza, musica, declamazione). Le parole per millenni sono state soprattutto fenomeni udibili dal vivo, un flusso sonoro di articolate e significanti qualità vibratorie in un tutt’uno con movimenti, gesti, pause, ritmi, musicalità incarnate e sempre in costante relazione con le specifiche acustiche dell’ambiente circostante (caratterizzato da significative conformazioni spaziali, da materiali particolari e dalla presenza di altri esseri viventi e non, umani e non). La straordinaria invenzione della scrittura ha poi trasformato le parole in pezzetti di cose separate le une dalle altre, entità silenziose e statiche, da seguire spesso in solitudine su un supporto trasportabile ovunque, solo con gli occhi su una riga continua e muta. Tuttavia la cultura orale, che l’umanità ha esercitato ovunque per un tempo infinitamente maggiore della scrittura e della neonata cultura digitale, non è stata smantellata da queste nuove forme di comunicazione, ma nel caso di quella digitale ad esempio in parte riscoperta e utilizzata. Non è questa la sede per addentrarci in questo interessante settore, ma vorrei solo ribadire che l’oralità in presenza permane e mantiene una sua importanza capitale perché radicata nella nostra natura vivente e nella nostra memoria biologica. Nonostante l’utilizzo dei dispositivi digitali, non poterci incontrare in presenza durante le quarantene pandemiche ha gettato spesso nello sconforto, nell’angoscia, in profonda crisi gli adolescenti e molti di noi adulti, per non parlare degli anziani e della tragedia della solitudine delle loro morti. Se le riunioni su Zoom si sono rivelate utilissime (ma nell’eliminare spostamenti e orari di ufficio hanno spesso pericolosamente accresciuto la schiavitù da lavoro) certo non possono bastare ad esseri vivi e biologicamente interconnessi. In questi tempi in cui la tecnologia si svilupperà sempre più con i suoi irrinunciabili traguardi, anche relativi alla realtà virtuale, è necessario rigenerare e affinare un’arte della presenza viva dove il corpo del sapere teatrale può assumere una nuova, utile funzione.
I nostri corpi modificati da ciò che facciamo nell’epoca in cui ci è dato vivere, dagli oggetti e dalle macchine che utilizziamo a cui, nel modo di funzionare, assomigliamo sempre più, non nascono come una tabula rasa e neppure sono immutabili, sono essi stessi corpi storici e plastici, frutto di un percorso millenario di mutamenti, dovute a modi di vita e di conoscenza del mondo diversi da quelle attuali, e come tali sempre passibili di ulteriori trasformazioni. Oggi però constatiamo che il corpo sensoriale che possiamo immaginare fosse nel passato diversamente e più sviluppato del nostro, adattandosi via via agli strumenti sempre più efficienti che ne costituiscono il prolungamento esosomatico, si è depotenziato nella sua vitalità fisica e psichica. In diverse culture sapienziali che in alcune tradizioni includevano le stesse arti performative, troviamo tracce di un profondo e raffinato sapere del corpo e delle sue trasformazioni psicofisiche volto alla liberazione dalle coercizioni egoiche, verso una saggezza individuale e comunitaria. Di fronte agli importanti risultati della scienza, tale sapere viene dimenticato ma non sostituito. A muovere queste mie considerazioni non è una nostalgia del passato (che peraltro non posso conoscere) bensì quella del futuro: le scienze biologiche più avanzate, ad esempio, mettono ormai proprio il corpo al centro della persona.
L’epigenetica ci dice che anche l’ambiente fisico e sociale, le esperienze culturali e le abitudini psicofisiche trasformano, anche se in modo reversibile, la nostra stessa biologia. L’idea del corpo contrapposto alla mente o da questa colonizzato non ha più fondamento scientifico. Man mano che queste conoscenze si evolvono, la persona coincide sempre più col suo corpo biologico inteso non tanto come contenitore dell’individuo, ma come l’insieme delle emozioni, delle sensazioni, delle percezioni e dei pensieri nella loro capacità d’intessere molteplici e articolate relazioni simbiotiche con il mondo circostante e i suoi elementi. La nozione stessa di individuo viene messa in discussione come istanza culturale immaginaria e sostituita da quella di “coindividuo” che ci apre a percezioni e consapevolezze nuove (Sini, Redi 2018). Questa realtà biologica che condividiamo con tutti gli altri animali (e per molti aspetti anche con i vegetali) ci orienta verso un superamento di una rigida demarcazione tra le specie.
Parlare perciò di animali nel teatro è davvero tornare alla radice stessa del teatro ma anche ripensare la nostra cultura. Gregory Bateson (1976) che ho riletto in questi mesi di clausura, considerava di grande importanza quelli che chiamava “moduli arcaici” di comunicazione umana, specie quella artistico-performativa, che si connettono per più di un aspetto alla nostra natura animale. Forse non a caso la saggezza popolare chiama l’attrice e l’attore di talento “animali da palcoscenico”, riconoscendo in loro una dote che non riguarda la cultura intellettuale scritta, ma che affonda le sue radici vive in quella orale (Havelock 1973). Intendendo con “orale” una dimensione complessa (cognitiva ed epistemologica) che investe nella molteplicità delle sue forme il sapere incorporato (embodied knowledge) o, ancora meglio, il “sapere in azione”, perché i comportamenti performativi non sono semplicemente un sapere depositato nel corpo come qualsiasi nozione che venga ritenuta nella memoria, quanto piuttosto una memoria del “corpo in azione”, un «sapere del corpo che agisce in relazione» (Deriu 2012).
A mio avviso, in vista della “riconversione ecologica”, questi nostri tempi malati ci chiedono, e disperatamente, di sviluppare non solo tecnologie, economie, concezioni intellettuali e soluzioni algoritmiche, ma uno specifico corpo ecologico in ascolto della natura e capace di godere profondamente dell’empatia con gli altri esseri. Decisivo può essere in questo il sapere del teatro, della danza, del canto e del poetare ad alta voce in quegli spazi naturali che condividiamo con gli altri viventi e in ascolto di questi. Queste pratiche collettive, esercitate con competenza, sarebbero in grado di rigenerare una conoscenza goduta e condivisa fondata sull’esperienza personale, in dialogo con le conoscenze scientifiche e filosofiche, per una nuova etica di alleanza tra viventi.
Se dovessi riassumere l’arduo compito che ci aspetta, lo farei con una formula programmatica articolata in due passaggi fondamentali: nel primo si tratta di riconoscere nella contrapposizione tra cultura e natura su cui si incardina la nostra civiltà con i suoi non disconoscibili risultati ma anche i suoi altrettanto non disconoscibili disastri, un errore di giudizio da emendare con un assunto più corretto e adatto ai tempi in cui viviamo: l’essere umano è un animale natu- ralmente culturale. Se vogliamo sopravvivere come specie, e vivere degnamente, dobbiamo compiere un secondo passo, che costituisce il compito che ci aspetta: realizzare un’umanità culturalmente destinata alla Natura. La Natura è il nostro destino: a un tempo origine e destinazione.

3. Riflessioni su umani e altri animali nella scena naturale
Nel suo bellissimo libro L’Io e il Tu, Buber (1991) afferma che il fattore che salverà la specie umana dalla deriva della mercificazione delle relazioni, sarà la scoperta e la percezione dell’alterità, perché l’Io che vede Te non è l’io che vede gli “oggetti”. Buber parla del rapporto tra le persone ma così come il dominio dell’uomo sull’uomo non cesserà se non cessa quello sulle donne e sui bambini, allo stesso identico modo nessuno sfruttamento cesserà se non cessa quello sugli animali e i vegetali. E ancora, come comprendere e sentire che la radice dello sfruttamento stesso sta nello sfrut- tamento che ciascuno/a di noi opera su di sé?
In base anche alla mia esperienza di TeatroNatura, nonostante le buone intenzioni e le ideologie, non è per nulla facile connetterci con la Natura, percepirne l’appartenenza. Oltre ad un corpo del sapere plasmato dalle macchine che usiamo, abbiamo appunto continuamente a che fare con una ipertrofia finalistica che, appiattita sull’aspetto commerciale, piega ogni nostro impulso e pensiero all’ottenimento di un risultato/profitto immediato. Basti pensare che, nel linguaggio contemporaneo corrente, con il termine performance ci si può riferire indifferentemente sia alla produttività nei luoghi di lavoro, sia alla funzionalità degli apparati tecnologici sia a varie forme d’espressione artistica e/o teatrale. Nello stesso controverso e polisemantico termine performance (di cui tra l’altro non esiste una traduzione in italiano), si mescolano indifferentemente i principi di rendimento (mercato), efficienza (tecnologia), efficacia (cultura) (McKenzie 2011). Che in ambiti così diversi si usi lo stesso termine, sta a indicare una concezione dominante e globale che non può a sua volta non generare reazioni e riflessioni sul fare artistico in cui la pratica operativa dovrebbe essere prevalentemente a servizio di una mente disinteressata e contemplativa.
Durante la clausura della prima ondata pandemica, mentre i nostri cieli si facevano più limpidi, l’aria della città più respirabile e i suoni degli uccelli più nitidi e risonanti, molti hanno sentito risvegliarsi un rinnovato amore e desiderio di natura, una necessità vitale di vicinanza alla natura, sia pure verso il proprio parco cittadino.
Come ci ricordava lo studioso di teatro Gerardo Guccini in un video di quei giorni su Facebook che mi ha molto colpito, le nostre parole sono ancora quelle che usavamo prima del Covid ma, anche se non ce ne rendiamo ancora conto, questa esperienza planetaria collettiva che ci sta trasformando è in cerca di un nuovo senso da dare a quelle stesse parole. Il mandato è cambiato. Sarebbe un errore non fermarsi ad ascoltare questo nuovo sentire che è dentro ciascuno, ed è compito innanzitutto di noi artisti esplorarlo ed esprimerlo.
È stato detto come in questi tempi drammatici e rischiosi riscopriamo sulla nostra pelle e dentro la nostra vita di essere tutti collegati. Internet, ci ha certamente e validamente soccorso, ma non può sostituirsi alla ben più complessa rete psicofisica che collega i viventi tra loro. La pandemia ci ha ricordato la nostra vulnerabilità di umani, l’importanza dei nostri contatti affettivi e il bisogno di natura, ci ha rivelato che se la salute è a rischio l’economia tracolla, che nessuno si salva da solo e soprattutto che la interconnessione vitale della nostra specie con quella animale e vegetale non può più essere ignorata. La Natura non può più essere un campo di spietato sfruttamento, ne va della nostra sopravvivenza, del nostro benessere psichico e fisico anche perché, assieme agli altri animali, lo stesso animale umano non è meno sfruttato e massacrato dalla propria specie. Appare sempre più evidente che la giustizia ecologica coincide con la giustizia sociale e che entrambe sono calpestate dalla mentalità sfruttatrice della nostra cultura patriarcale.
Intanto la drammatica esperienza che ha coinvolto il pianeta, proprio per la vastità della sua espansione, ci ha anche dato la possibilità di allargare, a tratti, la nostra coscienza identitaria: da individui, chiusi in un territorio o in una nazione, ci siamo sentiti tutti uniti: “esseri umani” a rischio in un pianeta tragicamente alterato nei suoi equilibri in cui, come in un incubo, ci siamo sentiti possibili untori o infettati. Così, vedendo le nostre strade vuote percorse da animali selvatici abbiamo anche avuto bagliori di un ulteriore passaggio di coscienza verso un sentire identitario qualitativamente superiore perché più inclusivo: da “esseri umani” a “esseri viventi”, abitanti tutti della stessa casa, un pianeta abbandonato allo sfruttamento e bisognoso di cura.
Nel lavorare a un’arte performativa nei luoghi naturali abbiamo sperimentato la difficoltà a percepire e incontrare la Natura anche quando ci stiamo dentro. Continuiamo ad accontentarci di “pensarla” o “immaginarla” (come ad esempio ci induce a fare la pubblicità quando strategicamente attinge a un nostro bisogno profondo, in parte rimosso, di contatto con il selvatico), ma non sappiamo quasi più sentirla se non per brevissimi istanti. Non sappiamo più percepire la qualità vivente degli esseri.
Per lo stesso identico motivo, ad esempio, è anche diventato sempre più difficile contare su una competenza degli attori, dei registi e del pubblico relativa alla qualità vivente dell’azione teatrale (la quale, anche se non “misurabile”, ha comunque una sua capacità di contagio spesso decisiva per la riuscita di uno spettacolo). La questione è complessa ma, in sintesi, riguarda le diverse qualità vibratorie della voce e della fluidità del movimento, indistinguibili dall’articolazione energetica dei significati veicolati, in grado di contagiare la vitalità dello spettatore e nutrirsi della qualità della sua attenzione. Si tratta di un’arte circolare di partecipazione organica all’evento performativo che una comunità sviluppa e affina assieme ai suoi artisti, e che l’abitudine contemporanea agli effetti speciali degli apparati tecnologici, ai collegamenti in remoto e alla fruizione di massa contribuiscono ad atrofizzare. Partendo da questa consapevolezza l’atto performativo in presenza può risvegliare e affinare la sensibilità all’interconnessione organica tra i corpi. Non siamo interconnessi solo con la rete di internet, ma biologicamente e psichicamente, tra noi, con gli animali, con le foreste.
L’analfabetismo montante su tutto ciò che riguarda la relazione col vivente, è materia del nostro specifico progetto performativo che indaga il rapporto interumano in/con l’ambiente naturale circostante, le sue atmosfere e gli esseri che lo abitano.
Questa pratica teatrale che rinuncia al palco e ha necessità di modellare la partitura teatrale in luoghi naturali sempre diversi, richiede attrici e attori flessibili fisicamente e mentalmente.
L’allenamento a un teatro nella Natura è per noi principalmente volto a risvegliare gli impulsi muscolari profondi, la capacità di reazione organica e immediata, la naturalezza dell’azione e della reazione nella partitura drammatica, nella relazione fisica e empatica con gli elementi specifici presenti nel luogo, con i compagni e le compagne in scena, e con la qualità d’attenzione degli spettatori presenti. Nei primi anni, di grande ispirazione sono stati due video in cui R. Cieslak insegnava agli attori dell’Odin Teatret come lavorare sugli impulsi e le asanas in movimento, in cui emergeva la qualità animale del corpo umano. Quella qualità, importante per qualunque attore che salga sul palco o agisca in una sala teatrale, per noi del TeatroNatura era necessaria per muoverci tra gli alberi, salire sulle rocce, aggirarci in luoghi vivi pieni di animali visibili e udibili ma per lo più nascosti. Abbiamo poi integrato nel nostro allenamento il metodo Feldenkrais di cui sono diventata insegnante, per affinare la consapevolezza sottile del coordinamento del corpo in movimento, abbiamo praticato a lungo diversi tipi di camminate meditative, creato azioni pre-espressive volte allo sviluppo della presenza sensoriale e della continuità dell’attenzione a quanto ci circonda lasciando emergere l’aspetto spirituale di questo lavoro. Altrettanto necessario è stato in questi anni incontrare attraverso i nostri percorsi formativi il pubblico interessato alla nostra ricerca artistica ed educativa, osservarlo, sentirne le impressioni e i pensieri.

4. Percorso di ricerca personale?
Ogni tradizione sapienziale volta alla trasformazione della coscienza ha come intento integrare la funzionalità del cervello neocortex (intellettuale, controllante e mosso da impulsi strategici) con quella affettiva e di cura che dobbiamo alla nostra natura mammifera, e con quella istintuale più arcaica, di autoregolazione organismica e auto conservazione del cervello detto rettiliano che si trova nella colonna vertebrale. L’intelligenza affettiva e quella istintuale sono entrambe drasticamente svalutate da una mente patriarcale che lascia spadroneggiare l’intelligenza cognitiva strumentale, di formazione più recente e specificamente umana, sulla integralità della nostra vita (Naranjo 2007, 2009). Anche per ritrovare e affinare una relazione profonda con la Natura è necessario risvegliare questi altri due cervelli fortemente connessi con la nostra natura animale.
Il virus che nasce dal salto di specie, ci ricorda che anche noi per millenni, prima di diventare predatori siamo stati prede e possiamo tornare a esserlo, e ci ricorda che l’ignoranza criminosa e l’aridità del cuore che ci contraddistinguono sono frutto di una cultura che sopravvaluta la razionalità, l’astrazione, la competizione e la sopraffazione a danno dell’intelligenza istintuale, affettiva, collaborativa e creativa. Solo queste intelligenze, liberate, nutrite e armonizzate con la mente intellettuale, possono (come hanno sempre fatto) indicarci le insperate vie di salvezza che cerchiamo.
Occorre però smascherare il costrutto egoico antropocentrico che separa in noi la mente dal corpo, il soggetto dall’oggetto, la cultura dalla natura, gli uomini dalle donne, la specie umana da quella animale e vegetale, gli adulti dai bambini facendo dei primi i colonizzatori e gli oppressori dei secondi. Tale costruzione mentale è probabilmente stata necessaria alla nostra evoluzione ma oggi ha fatto il suo tempo. Ammetterlo vuol dire immettersi in un percorso personale spesso doloroso perché richiede consapevolezza e pentimento rispetto ad alcuni comportamenti personali e sociali (specifici per ciascuno), non per alimentare un senso di colpa tipico di una religiosità autoritaria, ma per mettere in moto una metànoia, un cambiamento mentale efficace, un mutamento di direzione della coscienza dovuta a un’auto osservazione in cui ammettiamo, soffrendolo, l’aspetto meccanico e stolto del nostro pensare e agire.
Per sentirci potenti e dominatori abbiamo perduto il diritto alla relazione empatica e al sentimento di uguaglianza con gli altri esseri, che è un diritto alla felicità e alla pienezza vitale.
Imparare ad accettare di farsi guardare da un animale, rinunciando a fare di lui sempre e solo un oggetto per il nostro piacere, da sfruttare, da fotografare, da studiare sempre nell’assunto presuntuoso di una nostra superiorità, potrebbe mettere in crisi il recinto sterile, soffocante e mortale della nostra soggettività dominatrice e aprirci finalmente alla molteplicità eterogenea degli esseri e alla sperimentazione del vivente. «Il brulichio della vita non conosce né “io” né barriere invalicabili» (Cimatti 2013). Ma per far entrare ciò nella nostra vita, abbiamo bisogno di una nuova educazione.
Non possiamo smantellare la struttura dell’io in cui ci siamo sviluppati come animali umani dotati di linguaggio (che ci porta a vedere più la specie che non l’animale singolo, le categorie astratte che non l’occasione irripetibile dell’incontro davanti a noi), ma possiamo forse imparare a integrare e trasformare quella struttura mentale (mind structure) con altre forme di relazione con il mondo, ricordando, riportando al cuore, proprio la nostra animalità. Probabilmente il misterioso senso del sacro di cui a volte riusciamo a sentire ancora l’eco, non è che il riaffiorare in noi di questo passato ancestrale che è ancora nel nostro DNA: «un’immanenza ancora senza parole» (Cimatti 2013), che torna miracolosamente ad affacciarsi in noi nel silenzio dei boschi e nel loro fruscio; nel planare di una poiana che ci porta fuori del tempo; nella pratica meditativa quando i pensieri si ritirano nel fondo della mente e lasciano spazio al silenzio interiore, alla benevolenza, al respiro e alla presenza; nella percezione del flusso di movimento in una danza tra gli alberi; nel canto tradizionale polifonico nato in paesaggi specifici e ora trasportato dal vento in quello presente; nella parola poetica che risuonando accanto a un ruscello o una grotta può risvegliare in noi antiche memorie corporali e immaginali. Allo stesso modo il mito antico, evocato dal corpo rituale del teatro, lascia emergere una traccia della nostra dimensione ancestrale di esseri naturali avvicinandoci all’eterogeneità dei viventi, come nella poesia delle Metamorfosi di Ovidio, dove danza davanti a noi una molteplicità di corpi organici e inorganici che sanno come entrare gli uni negli altri senza soluzione di continuità.

5. In corpi nuovi. Tracce di memorie animali nel TeatroNatura
Grazie all’arte del racconto orale i miti classici non possono essere liquidati come fantasie letterarie. Sono forme vive, metamorfosi terribili, estatiche e sensuali, che emergono dalla muscolatura profonda, da micro impulsi, ritmi danzati dall’organismo stesso di cui le parole ne sono la propaggine: la ninfa Aretusa che si scioglie in acque sotterranee per riemergere come fonte sacra, l’adolescente Ermafrodito che in un limpido laghetto si fonde con la ninfa Salmacide divenendo un conturbante essere biforme; il cacciatore Atteone trasformato in cervo e poi sbranato dai suoi cani dopo aver visto in una fonte nascosta la nudità della Dea delle selve, i marinai intenzionati ad abusare di Dioniso fanciullo da lui tramutati in guizzanti delfini; la cacciatrice Callisto stuprata da Giove, mutata in orsa e poi in costellazione, la ninfa Io trasformata in vacca perseguitata e poi trasfigurata nella dea Iside... tutti viaggi corporali e psichici, tracce di percorsi sapienziali perduti, del traumatico passaggio da un mondo matristico a uno patriarcale, resi possibili dal narrare teatrale e rinnovati in paesaggi naturali ogni volta diversi perché il mito, punto d’incontro tra natura e cultura, “non è mai accaduto ma accade sempre”.
Quando esploro un luogo naturale in cui dovrò ambientare uno spettacolo, un laboratorio o raccontare un mito antico comincio con una fase pre-espressiva simile a una meditazione in movimento o a un’attenta perlustrazione di caccia. Posso praticarla da sola o in gruppo, ma sempre in silenzio. Durante l’attraversamento silenzioso di boschi, ruscelli, radure e grotte, rallento molto il ritmo abitudinario del mio passo o lo velocizzo fino alla corsa o lo rendo fluido finché attenzione-respiro-movimento, come forse accadeva a qualche mia antenata, tornano ad essere tutt’uno. E l’animale che mi vive si sveglia. È una sensazione che non passa per il pensiero verbale ma sa che è quell’animale a tenermi viva. Ora mi muovo in un altro corpo più coordinato e sensibile, più vicino a me di me stessa, più radicato e leggero in cui i piedi vedono quanto gli occhi, e la spina dorsale, nel luogo in cui m’aggiro, intuisce direzioni e qualità che prima non notavo. Ora più di tutto amo andare random. In un silenzio che respira, sono così silenziosa che, a pochi passi nell’erba, d’improvviso un uccello s’alza in volo o, fulmineo, un serpente si srotola scivolando via tra le pietre. Altrettanto fulmineo il respiro mi si blocca nel petto e spilli di paura mi si scaricano nelle vene. Il cervello rettiliano per un momento mi ha pietrificato succhiandomi via il respiro simulandomi morta o di sasso. Ma da dove è affiorato, oltre ogni mio barlume di coscienza, quell’arcaico difensore? A volte sbuco in una radura. Una cerva sta brucando e si volta. Mi fermo e d’istinto il respiro, per lo stupore, rallenta. Resto immobile a una distanza viva, incerta, che palpita tra me e la cerva. La meraviglia e il silenzio per un attimo mi trasportano in una dimensione eterna, mitica. Connessa con tutte le umane e gli umani di ogni tempo e luogo, sono dirimpetto a un essere naturale, selvatico, che mi guarda, respira, ha paura, corre e ama la sua libertà. Come me.
Nonostante nella nostra prospettiva antropocentrica sia oppresso, dimenticato, abbiamo il diritto di vivere il naturale nell’umano, riscoprire la dignità e la magnificenza della nostra natura animale per poterla amare anche negli altri viventi. È un diritto di felicità.
Nel rischio mortale che abita sempre ogni essere vivo, il respiro è dono circolare, tempo affidabile e ritmo, come il tamburo sommesso del cuore. Tutto ciò che vive pulsa. Anche gli alberi che non hanno polmoni respirano l’aria, anche se non hanno un cuore pompano il sangue linfatico e lo fanno circolare, non hanno voce e gambe ma raggiungono altre vite ramificandosi sotterranei, e parlano o forse cantano con suoni inudibili a noi. (Lo so perché l’ho letto, ma mi accorgo davvero di quelle presenze solo a volte dopo essere stata fuori tutto il giorno, al crepuscolo, quando i contorni e i colori di quegli alberi si fanno meno netti e io stessa entro in una diversa percezione di me dove il mio interno si fa più udibile).
Sono in un uliveto o in un bosco o in una radura o davanti a un muretto a secco o accanto a un ruscello. Aspetto l’arrivo del pubblico e l’inizio dello spettacolo. Per calmare la paura, in piedi o seduta su una roccia, ascolto il mio respiro e guardo come l’aria dondola le fronde, come la luce che filtra tra i rami scivola liquida sopra foglie immobili, sospese nello spazio e nel tempo. Anche la luce sembra respirare. Le mie spalle si rilassano, ma il cuore batte ancora troppo forte: l’animale in me attende all’erta un richiamo, un segno dal predatore o dalla preda, non so, comunque sta attento. Forse vorrebbe fuggire, ma dove andrebbe? Non c’è altrove se si avverte interno a un vasto grembo, una Natura che tutta respira, tutto contiene e che sa. All’ “umana” parte di me invece resta ciò che va fatto: lo spettacolo. Sospiro profondamente e il peso del corpo attraverso i piedi nudi affonda un po’ di più nella terra. Recito sempre a piedi nudi a meno che non vi siano cardi o sporcizia umana. L’animale respiro sta lì paziente. Acquattato nel diaframma, tra torace e addome, culla il peso dell’ansia, l’inquietudine del battito. Libero un altro sospiro sperando di sciogliere la tensione. Umana e animale, io so poco di radici, ma resto ben piantata al terreno e mi dondolo un po’ mentre passo le dita sull’orizzonte che le chiome degli alberi disegnano nel cielo. Nessuno mi vede, così con piccoli movimenti sconosciuti, gesti adrenalinici, forse rituali, dimenticati dalla coscienza chissà da quanto, spero di convocare forze alleate. La musica di questa semplice danza ha qualcosa di misterioso, nasce dal silenzio, ha il ritmo del respiro, del cuore, del pulsare della circolazione sanguigna o forse dell’incantamento di qualche piccola melodia della primissima infanzia ora divenuta inconscia.
Che luce morbida ora s’allunga bagnando pietre, prato e tronchi! Quest’oro svanirà in pochi minuti: mai più, neppure domani a quest’ora, sarà come adesso. Peccato il pubblico non sia già arrivato e questa carezza di tramonto sia andata sprecata... Mi vergogno subito un po’ di questo pensiero troppo strumentale allo spettacolo. Che conosco io di tutto ciò? Forse questo passaggio di luce è un avvertimento, una benedizione, la traccia di un linguaggio luminoso che, come il calore che resta ancora su questa pietra, mi resterà per un po’ sotto la pelle. Si irradierà furtiva da me quando gli spettatori finalmente mi troveranno? Scricchiola un ramo e frusciano piano le fronde, un uccello grida lontano, altri bisbigliano dietro quegli arbusti, altri ancora scoccano voli improvvisi e trafiggono il cielo. Tutto è in attesa con me. Da quanto? In tanti anni di TeatroNatura, non so quante volte ho aspettato così nei più diversi paesaggi d’Italia. L’animale respiro era sempre con me, come adesso mentre scrivendo risveglio quelle memorie corporali. Non siamo forse divenuti, io e lui, un tutt’uno in quei felici e angosciosi spazi d’attesa?
Sento il calpestio, il pubblico arriva. O forse questa volta da lontano sento prima il canto di Camilla e di Valentina che guidano così gli spettatori da me. Quell’armoniosa sonorità che le precede s’espande nel paesaggio, lambisce i fianchi della collina, si mescola al vento o al vociare del ruscello. È la brezza a generare le loro polifonie o è quel canto a suscitare il respiro ventoso che proprio ora fruscia tra queste canne palustri? Il pensiero razionale calcola cause ed effetti ma la percezione con più profonda sapienza rovescia questi fenomeni aerei mescolandoli continuamente. Tutto è aria che circola.
D’improvviso mi calmo: lo spazio-paura è sospeso di colpo. Mi affido al silenzio, al respiro e alla brezza, alla terra che sento sotto i piedi, al grembo che mi circonda, a quello che accadrà.
E spuntano ancora una volta in gruppo, in fila, tra gli alberi o al voltar della strada, e si siedono incerti o decisi, goffi o delicati in terra davanti a me. Io li guardo restando nel sentire, nel cuore che mi urta nel petto, nel silenzio dell’attesa, negli uccelli tra i rami, nel mio respiro. A un tratto, nel silenzio sospeso, obbedendo a un misterioso segnale... parlo. Non importa cosa dico o quale storia ascolteranno stavolta. Il guardiano respiro ha aperto la porta a una pulsazione più intensa che ora si scolpisce in parole, in personaggi e sorrisi, in paesaggi narrati, in sentimenti e impulsi. Il serpente vitale che mi abita si snoda tra alberi e toni di voce, erba e mani, sospiri del petto, fiammeggiare di occhi. Mentre racconto sono qui da sempre. Dopo non c’è, prima neppure. Finché, nel mare/respiro l’ultima navicella verbale rientra in porto e si ormeggia silente. Applaudono, ma è più bello se si allontanano, come è già accaduto, in silenzio. A volte hanno aspettato accanto a un albero muti e commossi che calasse la notte, ricevendo in dono il grido di una civetta.
Il racconto e la musica sono svaniti ma ne sento ancora l’eco intorno a me nel crepuscolo, il pulsare flebile nelle vene, l’impercettibile vibrare nelle vertebre. Questa risonanza non m’impedisce d’abbracciare chi si avvicina e ringrazia. C’è scambio di gratitudine e affetto quando l’adrenalina si posa. E dove vuoi che si posi quella cavalcata di immagini e voci se non nel respiro, nel tono già cambiato dei tuoi muscoli?
Eppure, hai la sensazione che da qualche parte tu stia ancora narrando di miti. Sono così antichi, così bambini! Raccontando sempre li respiri, li culli e li ammiri, a loro piace così.
Intanto (in tempi di distanziamento fisico mi fa strano persino raccontarlo) abbraccio e tocco le mani e bacio la gente ma io, l’ho appena detto, sono due. L’altra è già lontana, in un altro bosco o radura assieme all’animale d’aria (pneuma lo chiamavano un tempo?) e aspetta sospesa la pioggia o il tuono o l’alba o lo scalpiccio del pubblico nuovo in arrivo.

I greci chiamavano l’anima e la farfalla con lo stesso nome: psiche. I latini, animula; la parola l’avevano presa dal greco anemos, ‘vento’. Nella loro lingua incarnata, gli antichi evocavano così il mistero del soffio vitale.
Concludo questi appunti riportando qui uno dei miei primi ricordi, probabilmente la mia prima esperienza teatrale:
Ho 3 anni, dopo pranzo, mamma è molto nervosa, vuole riposare. Io e mia sorella di un anno più piccola non dobbiamo far chiasso, non deve volare una mosca. Cominciamo a giocare agli animali. Io faccio il leone e mi ritrovo a inseguire mia sorella per la stanza. Sono sempre più feroce. Lei scoppia a piangere. Mi blocco interdetta. Perché piange? Lo sa che non sono un leone. Mentre mia madre ci strilla io, emozionata, sento ancora la sensazione di un leone feroce dentro di me.»

Foto di Manuela Cannone | da Officina Naturae, percorso formativo residenziale

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